Congelata nella luce

Nord del Pizzo Palù (3882 m, cima orientale), Sperone Kuffner – 10-11/08/2011
Fotografie di Donato Erba e mie

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Durante il soggiorno in Cina, nonostante i luoghi affascinanti visitati, continuavo a ripetere a mia moglie delle ascensioni che mi sarebbe piaciuto fare quest’estate e invece, proprio per via del soggiorno, sarebbero slittate. Certo, si sarebbe potuto fare qualcosa a settembre, ma la stagione per lo più quest’anno la davo per “sacrificata” all’esperienza asiatica. Mi sono reso conto solo là, a 10.000 Km da casa, quanto mi mancavano le Alpi.
Ecco perché non ci è voluto molto perché, tornato a casa con un mese d’anticipo, mi dessi da fare per organizzare un’uscita di quelle serie. La proposta di Donato: Nord del Palù, sperone Kuffner. Gran classica di misto su una delle più belle montagne che esistano. Come rifiutare?
Eccoci quindi con la famiglia (Donato, oltre che compagno di ascensioni e guida alpina e eroe dell’Antartide e esploratore delle Ande ecc. è anche, nella prosa della vita normale, mio suocero) in Engadina, il giorno prima dell’ascensione, e in compagnia del nostro terzo di cordata, Francesco (uno degli allievi di Donato), per goderci una giornata di passeggio rilassante in Val Roseg.
Il luogo è incantevole, e subito dopo il passo del Maloja la Svizzera ci accoglie con le sue tinte brillanti che chi non ha visto dal vero pensa siano ritocchi in Photoshop.

La successione di laghi, fiumi, pascoli, è pura serenità.

Saliamo lungo un sentiero facile con le bambine, mangiamo al sacco e ci godiamo la vista della testata innevata della valle, montagne che paiono enormi fino a quando si fanno piccole all’emergere, sulla sinistra, della massa del Pizzo Roseg, nero e candido, immane.
Siamo giunti all’alpeggio a quota 2.000 dopo meno di due ore di marcia fra genziane e anemoni quasi in piano (consiglio la passeggiata a tutti, specie per famiglie). Lo guardiamo, lo fissiamo, e giriamo i tacchi. È già tardi e dobbiamo andare a prendere la funivia.

foto V.E.

Salutiamo mogli, figlie/nipoti, e saltiamo in auto. Loro tornano in patria, noi andiamo su qualche chilometro per prendere la funivia del Diavolezza.
D’improvviso tra due montagne emerge una specie di nuvola tripartita. Sembra davvero una divinità tricefala che abbia sollevato la testa tra le montagne e di lassù ci osserva. È lui. Dobbiamo davvero andare là in cima? Non è blasfemo?

E poi emerge sulla destra anche la Biancograt, la “Scala Celeste”, la più celebre cresta di neve delle Alpi, che monta sul Pizzo Bianco per condurre in cima al Bernina, la più alta delle Alpi Retiche e il più orientale dei 4.000…

Prendiamo l’ultima funivia della giornata. Scesi, ci dirigiamo alla reception del rifugio Diavolezza, più un vero albergo che un rifugio – lager a parte, che però sono pulitissimi così come i servizi e tutto il resto.
Il panorama fuori dai finestroni del ristorante del Diavolezza è incredibile. È proprio lì fuori, il Palù, che ci guarda con le sue tre teste colossali e scintillanti di neve e ghiaccio.
Di montagne ne ho viste. Ma non ho mai visto nulla di così.

Sistemiamo gli zaini e osserviamo la luce calare sul circo di titani che occhieggia sopra il ghiacciaio del Pers. A sinistra il roccioso Piz Trovat, che sembra solo uno zuccotto davanti al Pizzo Cambrena, poi i Palù che nel complesso appaiono regali, quindi il Bellavista anch’esso tricefalo e sotto l’affilata Cresta Aguzza il gran costone roccioso della Fortezza. A destra si leva il Bernina con la sua linea sublime e al suo fianco il Morteratsch che ha l’aria di un mastino dalle spalle larghe.

Il sole cala e dopo la cena usciamo per assistere al tramonto, mentre la luna è luminosa sopra le nevi dorate del Cambrena. Le cime si fanno rosa e ciclamino, l’ombra scivola su per i nevai, poi rapidamente la temperatura precipita e rientriamo. Domani si parte presto.

foto D.E.

Anche se decidiamo di non partire troppo presto. Dopotutto l’ascensione che ci aspetta dovrebbe essere compiuta in 5 ore, considerando che siamo in tre e quindi un po’ lenti, più 2 ore e mezza di avvicinamento e poi circa 3 ore per il rientro tramite la via normale. Dovremmo quindi, se tutto va bene, rientrare in 10, 11 ore. Non serve alzarsi alle 3. Concordiamo per una sveglia alle 4.30.

La notte è caldissima. Nel lager siamo in parecchi e la finestra è chiusa. Per di più al Diavolezza hanno tenuto non so perché il riscaldamento altissimo oggi, e non si respira. Continuo a svegliarmi e mi pare il cuscino sia rovente. Mi tiro fuori dal sacco lenzuolo, mi giro, continuo a bere. Si muore.
Quando guardo l’orologio la prima volta spero sia già ora di alzarsi, e invece è solo mezzanotte…
Finalmente prendo sonno e la sveglia suona subito dopo. Come da programma. Dopo la colazione (in cui, com’è usuale, ci scambiamo frasi del tipo “Ma chi ce lo fa fare?” e “Che sport del cazzo” e “Ma dobbiamo andare là fuori?”), ci attrezziamo di ferraglia e ci buttiamo fuori nel nero. Non fa tanto freddo, la temperatura sarà tra gli zero e i due gradi, credo. La cosa più impressionante è che nel buio, rotto solo dalle nostre frontali e da quelle delle altre cordate, si stagliano macchie enormi e bianche che sono i canaloni del Palù.
Camminiamo sorvegliati da spettri silenziosi che occupano il cielo.

L’aggiramento del Piz Trovat è semplice, si cammina su sfasciumi irradiati dall’aurora, però si sale e sudo già. Appena inizia la salita levo giubbotto e pile e resto in maglietta.
Girato l’ultimo sperone ci accolgono i ghiacci violacei d’alba. Il cielo è indaco e pare levarsi come vapore iridato dai fianchi dei titani.

Ramponi ai piedi, si marcia su per il ghiacciaio, prima piccole onde congelate come di un lago rotto da una brezza lieve, via via più ripido e più spaccato di crepacci. Si attraversano seracchi giganteschi e gorgoglianti, grandi come palazzi e castelli, dove spesso dal bianco emerge l’anima verdastra. Aggiriamo voragini spalancate di cui non si scorge il fondo, sconvolte all’interno da architetture folli di colonne di ghiaccio, budelli, stalattiti sottili e forme fantasmagoriche intrecciate.
Sulla traccia ci sono varie cordate dirette alla normale, ci precede un’altra cordata di italiani diretti alla Kuffner, un’altra cordata svizzera anche lei diretta lì è già più avanti.

Ci stacchiamo dalla traccia principale dopo una deviazione sbagliata che ci ha portati a ridosso dell’orlo di una voragine superata da un ponte di neve così sottile e lieve che preferiamo non fidarci del nostro gentile peso.
Camminiamo in costa verso ovest (con un certo qual dolorino al piede destro dopo un pezzo che non calzavo i ramponi).

Arriviamo all’attacco. Ore 8.00, siamo in buon orario. Il sole è giusto arrivato a scaldare gli gneiss delle rocce che si levano sopra di noi a formare lo sperone: un costone appoggiato costituito da blocchi di svariate dimensioni come incastrati gli uni negli altri, con alcune impennate qua e là a mezza strada, piuttosto stretto e sporgente a formare un rilievo netto. Da qui sembra una gigantesca torre crollata su se stessa e sorretta da immense zampe di ghiaccio. Sale per circa 400 metri, poi dopo essersi mescolato sempre più spesso a intrusioni nevose si disperde in una cresta sottile che porta in vetta.

Superiamo la crepaccia terminale – larga un metro e mezzo, profondissima e buia – con un balzo su rocce poco solide. Dopo un tiro leviamo i ramponi su un terrazzino comodo e partiamo su per roccette non difficili, poco stabili però: il ghiacciaio si è molto ritirato e le rocce non hanno più la presa di un tempo; molte si muovono, molte sono solo poggiate, e occorre saggiare appigli e appoggi con cura.

Si procede spediti, per essere in tre. Cominciamo però a renderci conto che le condizioni della via oggi sono severe e ci vorrà un po’ di più del previsto: sul fianco destro della cresta su cui procediamo la neve comincia a essere ghiacciata. Spesso occupa gli appigli e gli appoggi. Non è tuttavia abbastanza per calzare i ramponi, così che i passi si fanno spesso delicati. Né sufficiente per formare piattaforme che smorzino lo slancio verticale di alcuni passaggi. L’arrampicata è comunque molto divertente e varia – quasi mai per passaggi obbligati e di volta in volta per incastri, appigli e appoggi, opposizione – su questo mosaico di poliedri bruni.

foto D.E.

A un passaggio piuttosto complesso, Francesco scivola, si attacca alla corda e pendola verso destra sbattendo un ginocchio. Stringe i denti e ci raggiunge. Ma si vede che non è una bottarella da niente. Lui è un duro e non dice be’, se non fossimo noi a insistere non ci direbbe nemmeno che gli duole. Procediamo, ma inevitabilmente ora siamo più lenti.
Il grande torrione che racchiude il passaggio chiave lo vediamo sopra di noi, ma pare non arrivare mai. La giornata è splendida. Ci accompagnano brevi colpi di scariche che provengono dal costone Bumiller, alla nostra destra. La nostra salita non è difficile come quella, ma è abbastanza impegnativa e riserva passaggi sul IV grado, magari scarso ma reso complicato dalla neve e dal ghiaccio; ammiro gli uomini che salirono di qui nel 1899 con scarponi chiodati, alpenstock, corda di canapa e tutto il pesante armamentario di una volta.

Il passaggio chiave è duro.
Concordiamo che hanno ragione le relazioni che lo davano di buon V. E a 3700 metri di quota, con gli scarponi da neve e gli zaini, la marcia di avvicinamento nelle gambe e 300 metri di arrampicata sotto non è una bazzecola. Donato lo supera con leggerezza dopo averci pensato un po’ su.
Lo seguo: la prima placca è verticale e scarsissima di appigli, ma ben chiodata e Donato ha lasciato dentro un cordino, per ogni evenienza; voglio provarla in libera, a costo di fare una trazione col braccio sinistro che ha un appiglio discreto, e brutalmente poggiarmi con il ginocchio su un mezzo terrazzino. Poi con un balzello assolutamente sporco mi tiro su spingendo con la gamba sinistra. Ci sono.
Il passaggio successivo, l’uscita, è più tecnico e richiede fiducia in piccole rugosità che sono gli unici appoggi per le punte dei piedi, mentre le mani afferrano appigli grossi ma rovesci e leggermente strapiombanti. Non è uno scherzo. Non mi fido per nulla dei piedi, sono convinto che appena ci passo sopra il peso sdrucciolano via e io finisco penzoloni; se avessi le scarpette non sarebbe un grossissimo problema, ma così non vedo via d’uscita. Preferisco anche qui andare di forza. Faccio pressione verso l’esterno sugli appigli, e cercando di non pesare sui piedi comincio a sollevarmi a gran fatica, poi con un gesto rapido acchiappo un bulbo di pietra poco sopra.
Mi rendo conto di aver fatto una cazzata.
L’ho acchiappato con il braccio sbagliato e comincio a roteare in maniera bizzarra finché mi ritrovo praticamente in orizzontale, con la faccia rivolta in su. Vedo Donato che mi guarda strano da sopra e mi dice con un mezzo ghigno: “Non lasciarti giù adesso, eh!”.
Io rido, mi fa bene. Individuo guardando in basso a rovescio un cosino per il piede sinistro. Lo punto di sghimbescio e forzo la trazione con le braccia, poi non mi faccio problemi stilistici e afferro il rinvio poco sopra. Sono fuori.
Supero Donato in sosta e vado avanti una lunghezza a tirare il fiato accucciato su un terrazzino, e guardare il panorama mentre anche Francesco ne viene fuori aiutandosi con i cordini e improvvisando una staffa.

Pensavamo di essere praticamente in cresta, invece c’è ancora un bel tratto di roccia, mista però fittamente a neve. Mettere i ramponi? Decidiamo di no, per ora, e procediamo. La neve però è dappertutto e bisogna fare attenzione e procediamo con molta lentezza.
Potremmo accelerare, perché si sta facendo tardi, mettendoci in conserva. Ma decidiamo che è meglio non rischiare con queste condizioni.

foto D.E.

Calziamo i ramponi. Non siamo ancora sulla cresta finale ma ormai la neve è troppa.
Dopo un paio di lunghezze entusiasmanti su un filo acuminato, dove speroni di pietra forano il manto nevoso in un mosaico caotico di superfici difformi, finalmente ci mettiamo in conserva tra tratti nevosi e rocce non difficili. Francesco soffre ma, a testa bassa, marcia. Il tempo stringe perché vorremmo prendere l’ultima funivia per scendere in giornata, e ormai sembra dura farcela. Ma l’importante è arrivare in cima tutti interi.

foto D.E.

Siamo finalmente sulla cresta nevosa. Spettacolare. Una lama elegantissima e sottilissima che precipita a destra sul canalone Pallavicini sconvolto da seracchi e giù a sinistra per una parete candida, verso il plateau su cui serpeggiano le tracce della normale. L’inclinazione è del 40% circa. Non è difficile e la neve tiene perfettamente. Certo, è dura. E il sole ormai al suo massimo splendore brucia la pelle. Procedo, assaporo l’odore della neve.
Aver dimenticato la crema solare in macchina non aiuta…

foto D.E.

Supero la cornice finale, alta circa un metro e mezzo, e sono in vetta. Non riesco a smettere un sorriso idiota, mentre mi guardo attorno e sopra c’è solo il cielo.

foto D.E.

Un dosso bianco che a destra e a sinistra si stringe in creste sottili e si prolunga poi via verso il Palù centrale e quello occidentale. Là c’è la lama tagliente bianconera dello Zupò, e la mole immensa del Bernina e la Biancograt che pare un tratto di matita troppo bianca e brillante, tanto da forare l’azzurro, e poi il Morteratsch con le rocce cupe che sostengono il peso di un cuscino gigantesco di neve e ghiaccio. Voltandomi verso qualunque direzione ci sono solo cime, una tempesta di cime via via più basse. E lontano l’esercito di vette alterna biancori a grigi e azzurri. Inspiro a fondo l’aria sottile che sa soltanto di ghiaccio e luce.
Qui davvero nulla ha importanza. Nulla.

Francesco emerge e con la sua consueta cortesia ci dice che gli spiace di averci fatto tardare. Lo guardo in faccia e rido: “Guarda dove cazzo siamo e dimmi se può avere importanza averci messo un po’ di più”.
Per la funivia ormai è tardi (sono le 4 passate, e l’ultima è alle 5 e mezza). Ma pazienza.

La discesa è più impegnativa del previsto. La via normale, che seguiamo, è sì una via normale, ma di sicuro non è di quelle banali. La prima parte è una cresta dritta e veramente sottile, in discesa, dove si passa solo in fila indiana.
Francesco fa un po’ fatica e viene aiutato da Donato. Io mi perdo nell’ululato del vento; se non l’avete mai sentito a quella quota non posso descrivervelo.
A mano a mano che si scende diventa più sinuosa e facile.

foto D.E.

Il ghiacciaio si apre davanti a noi. Seguiamo la traccia molto battuta ma è troppo tardi, la giornata non è stata fredda e siamo un po’ preoccupati per i crepacci. Infatti, quando raggiungiamo il primo serio, i ponti di neve sono tutti crollati e occorre saltare. Così i successivi, e dove anche ci sono ponti non ci fidiamo e saltiamo.
Anche perché i seracchi colossali ringhiano.

Il più interessante è un crepaccio in cui la traccia scende, quasi andando a saggiarne le viscere, costeggiando un seracco che ne diventa poi parete precipitando giù verso il nero-azzurro. Un ponte di neve lo attraversa sottile e curvo – noi ovviamente saltiamo anche questo, non ha un aspetto troppo solido.

foto D.E.
foto D.E.

Usciamo dal ghiacciaio quasi alle 19.00, siamo in ritardo di almeno 4 ore, anche 5. Ma ormai il più è fatto. Basta aggirare il Piz Trovat e il rifugio ci attende. Vado in avanscoperta per chiedere letti anche per questa notte imprevista e far trovare ai compagni qualcosa da bere. (Mi chiedono una cifra insensata – davvero: insensata – per tre birre e tre bottiglie d’acqua, ma va bene lo stesso).
I miei due compagni di cordata arrivano con il sole che ormai tramonta, Francesco zoppica un po’, ma siamo tutti raggianti.

Oggi, mentre mi guariscono le ultime ferite del sole – resta solo qualche taglio sulle labbra – e le abrasioni sugli avambracci cicatrizzano, e mentre scrivo queste righe, ogni volta che chiudo gli occhi torno lassù; in vetta, quando sono emerso dalla cornice, ho stretto la mano a Donato, ho piantato la piccozza al suolo e mi sono guardato attorno.
Ogni volta che chiudo gli occhi. Dove nulla ha importanza.
Una parte di me è rimasta lassù.
Congelata nella luce.