Ora siamo dentro il mondo
Le Ruzze (2810) e Traversata di Cima Fontana (3070), bivacco all’Anghileri-Rusconi, 24-25/09/2011
fotografie di Luigi Musolino, Valentina Erba e mie
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Prima di questa uscita, quando mi capitava di dire a qualche amico montanaro il nome della nostra destinazione principale (Cima Fontana), ricevevo più o meno sempre sguardi straniti. In effetti non è che io conoscessi già questa cima prima di imbattermici per caso cercando un luogo adatto a un bivacco tra amici che soddisfacesse alcune caratteristiche: non troppo alto, impegnativo né difficile, visto che sarebbero state coinvolte persone non esperte e ci trovavamo già quasi in ottobre, ma che non fosse nemmeno proprio una passeggiatina; con la presenza di un bivacco fisso; e da cui fosse possibile compiere un’ascensione alpinistica facile ma bella.
Questi sguardi straniti debbo dire che aumentavano il desiderio di scoprire un luogo evidentemente non tra i più frequentati, e che quindi mi aspettavo piuttosto selvaggio nonostante la vicinanza a percorsi e valli famose. Una sorta di “cantuccio” alle spalle dell’immensa bastionata del gruppo del Bernina, a metà strada con quello dello Scalino, sul confine tra Italia e Svizzera. Un luogo che mi è parso subito perfetto.
Per questo reportage ho l’ottima occasione di passare la parola a Gigi Musolino, che ha fatto parte della spedizione.
Io interverrò qua e là così da offrirvi un racconto a due voci, per quanto non ruberò troppo spazio alla sua bella, divertente e appassionata narrazione.
I miei interventi li distinguerete perché sono in corsivo.
Dove osano le aquile, dove si disintegrano le suole
Già verso l’inizio di agosto, dopo la gloriosa spedizione di maggio al bivacco Saglio (locale invernale del rifugio Omio) in Valle dell’Oro, in compagnia di Daniele e Matteo, si vociferava di una nostra nuova escursione ad alta quota, stavolta con ascensione a una vetta. Un veloce scambio per organizzarci e ci rendiamo subito conto che l’esperienza in Valtellina ha minato nella mente e nel corpo l’Altissimo triestino. Matteo, il re dell’autoscatto e fornitore ufficiale di birra Kaiserdom, ci comunica che non sarà della partita. Dopo la delusione iniziale, apprendo però con piacere che si uniranno alla gita Alessio e Valentina, la moglie di Daniele.
La destinazione prescelta è una tributaria poco battuta della Valmalenco, valle laterale della Valtellina. Daniele, che conosce bene la zona, pianifica l’itinerario: partenza la mattina di sabato 24 settembre, ascensione al bivacco Anghileri-Rusconi (2654 m), cazzeggio, cena, dormita, e alle 5 di mattina della domenica tutti in piedi per raggiungere Cima Fontana (3070 m).
Sono elettrizzato. Dalla gita in Valle dell’Oro le occasioni per andare in montagna sono state poche, e il ricordo di quei picchi aspri, così diversi dalle più rotonde e morbide catene a cui sono abituato, è ancora vivo.
Sono talmente elettrizzato che decido di mettermi in viaggio il venerdì per raggiungere casa di Daniele, “campo-base” da cui partiremo per la Valmalenco.
Dopo aver conosciuto l’orrore degli ingorghi del venerdì sera sulla tangenziale di Milano, supportato dai Machine Head, per riprendersi basta poco. Alessio è arrivato da un po’, ed è già all’opera intorno a formaggi e melanzane grigliate. Valentina e Daniele mi rifocillano con un’ottima aglio, olio e peperoncino. Scambio qualche vocalizzo con Luna (la figlia più piccola di Daniele), mentre Aurora (la grande), tanto per cambiare, legge. E apprendo che anche lei sarà dei nostri!
Intorno alle undici Alessio si ritira, io e Daniele lo abbandoniamo al suo destino e diamo le ultime limatine a un libro. E intorno alla mezzanotte, spossati, anche noi decidiamo di andare a letto. Puntiamo la sveglia alle 5:30.
Dopo una notte piuttosto movimentata – Alessio non trova la posizione, io vengo colto da una crisi di starnuti epica, ché sono allergico ai gatti – ci ritroviamo di nuovo tutti intorno al tavolo. Colazione, ultimi preparativi, e si va.
Romeo, il gatto che abita all’imbocco del sentiero che sale verso casa mia, quando passa Alessio saluta con il lamentoso miagolio che spiego a Alessio chiamarsi Canto dei morituri. Sarà un segno?
Per raggiungere il nostro punto di partenza, l’imponente diga di Camp Gera, situata a 2000 metri di quota, occorrono due ore di viaggio abbondanti. Il tempo, durante il tragitto, non è dei migliori. Nuvoloni scuri si ammassano all’orizzonte, ma le previsioni promettevano bel tempo. Proseguiamo fiduciosi. Arriviamo al parcheggio intorno alle nove. Splende il sole. La temperatura è fresca, si sta benissimo. Infiliamo zaino e scarponi. Ora non si scherza più, tocca camminare.
Imbocchiamo un piccolo sentiero, poi una stradicciola sterrata che costeggia per un tratto il lago di Gera, il bacino artificiale creato dalla poderosa diga. La vista è incantevole, con le montagne che si riflettono nell’acqua a creare un effetto straniante, quasi alieno.
Dopo una ventina di minuti di cammino in salita mi rendo conto che la riduzione del consumo di alcool/cibo/sostanze nocive assortite e le due-tre ore di corsa settimanali hanno giovato al mio fisico. Procedo bene, rispetto alla spedizione al bivacco Saglio mi sento un altro. Alessio cammina spedito e guida il gruppo, Daniele e Valentina ci raccontano della loro esperienza in Cina e in particolare del loro soggiorno in un ameno hotel di Hong Kong, il Chungking Mansions. Aurora litiga con le bacchette e sottolinea con esclamazioni e smorfie il racconto dei genitori. Io cammino e parlo poco, devo risparmiare il fiato. Si procede di buon passo, si ride, siamo in un posto splendido. Oltre a noi, non c’è nessuno, solo le montagne che ci scrutano da ogni lato. E capisco che sarà uno splendido weekend.
Arriviamo in prossimità di un ponte che attraversa un torrente alla nostra sinistra. Lo attraversiamo. Subito dopo prendiamo un sentiero che sale con una pendenza considerevole, per poi ridiscendere bruscamente verso il lago. Io e Alessio, nelle retrovie, imprechiamo sottovoce. Quando scendi, poi devi risalire. Comincio ad accusare un po’ di fatica, ma niente di che. Valentina e Daniele paiono non avvertire lo sforzo. Non sudano nemmeno, e, cosa che a me risulta piuttosto difficile durante queste camminate, riescono a parlare.
Dopo la discesa che ci riporta sulle sponde del bacino passiamo sotto un formidabile artiglio di pietra, un grosso blocco di roccia che si piega verso il lago come il dito di un gigante cristallizzato nella montagna.
Superata questa sorta di galleria, Valentina e Alessio mettono il turbo. Io, Daniele e Aurora rimaniamo indietro e camminiamo adagio, tranquilli. Daniele mi parla dei suoi innominabili progetti letterari. Aurora continua a litigare con le bacchette, e impreca contro i due mascalzoni che ci hanno seminato.
Fa caldo. Qui si sale di brutto; scansiamo un gregge di pecore che ci viene incontro, Daniele passa avanti, io e Aurora arranchiamo e mangiamo una pesca, ma la fatica viene ripagata quando, conclusa la salita, raggiungiamo uno splendido pianoro a 2400 m di quota, dove ci sovrastano i pizzi Argient e Zupò. Alessio e Valentina ci stanno aspettando, sorridono. Ci sediamo, soddisfatti. Quando ci si trova dinanzi a panorami del genere si può fare molto poco, se non contemplare e scattare qualche fotografia. E il meglio deve ancora venire.
Sgranocchiamo qualcosa, beviamo, poi riprendiamo ad attraversare il pianoro. Lontano, un puntino rosso tra masse di foschia che oziano sul verde immacolato dell’erba, ammicca il bivacco Anghileri-Rusconi. L’ultimo tratto è piuttosto agevole, seguiamo gli ometti di pietra e percorriamo una distesa resa acquitrinosa da un torrentello, poi affrontiamo un canalone; infine, a poche decine di metri dalla nostra destinazione, seguendo il sentiero ci ritroviamo al Passo Confinale (2628 m) che immette in Val Tempesta, Svizzera. Siamo esattamente sul confine.
Dalla Svizzera sale un fronte gigantesco di foschia, pare esitare proprio sull’immaginaria linea che divide i due Paesi, creando una muraglia. A tratti si ritira e si aggroviglia e ci mostra a ritagli la verde valle di Poschiavo, laggiù, tanto più in basso.
Pieghiamo a sinistra, superiamo un ultimo tratto erboso e ci siamo. In circa tre ore abbiamo raggiunto il bivacco.
È molto carino, decisamente meno spartano e spoglio del Saglio. E molto più spazioso. Ci sono nove brande, coperte in quantità, un diario dove lasciare le proprie impressioni, candele, un bel tavolo, panche, persino una cartina e delle carte da gioco.
Dopo aver ispezionato il nostro rifugio notturno, cerchiamo di convincere Valentina e Aurora a fermarsi fino a mattina. Siamo in cinque, c’è spazio in abbondanza. La signora Bonfanti decide però che tornerà a casa nel pomeriggio. Un’ottima scelta, visto che più tardi lo spazio in abbondanza si ridurrà drasticamente.
Ci riposiamo, seduti fuori dal bivacco, ci godiamo il sole caldo del primo pomeriggio, Alessio prende le sue bottiglie e va a fare scorta d’acqua a una fonte che dista 300 metri dal rifugio. Io e Daniele diamo un’occhiata a Cima Fontana che si erge proprio alle spalle del bivacco. Cerchiamo di capire come si arriva in cima. La mattina alle cinque, col buio e la sola luce delle torce, non sarà facile scorgere gli ometti e i bolli rossi che segnano il percorso. Individuiamo quella che ci pare una via percorribile per superare la prima bastionata, mentre la cresta da cui sale la via Normale non la vediamo essendo sul versante opposto, a nord-est. Ma Daniele ha stampato una relazione. Non ci saranno problemi, ci diciamo.
Torniamo al bivacco e facciamo pranzo – panini, uova sode, albicocche essiccate, uva sultanina, mandorle, frutta – poi io mi allontano di alcune decine di metri per espletare una banale funzione corporale.
Mentre il buon Alessio scopre, dopo otto lustri, una passione per le albicocche essiccate che probabilmente lo condurrà sulla strada della dipendenza.
Ed è mentre torno indietro verso il bivacco che succede qualcosa. Un gemito basso, cupo, riecheggia nella vallata. Dapprima penso alla voce del vento che s’insinua nei canaloni, ma poi il verso sale d’intensità, feroce. Memore delle oscene presenze notturne al bivacco Saglio, ben descritte nel distico infame di Matteo,
“E quell’ombra immane che oscurò stelle e luna
era davvero il Gigìàt che affamato si aggirava trascinando con sé la sua ultima preda?”
rabbrividisco. Mi lancio di corsa verso l’Anghileri-Rusconi, incerto sulla sorte dei miei compagni, e la vedo. È una creatura glabra che si aggira intorno alla scatoletta di metallo rosso che sarà il nostro riparo per la notte, e la cosa che più colpisce nella sua morfologia vagamente antropomorfa sono i piedi, rossi, il rosso dell’Inferno. La scruto da dietro una roccia mentre lancia il suo grido disperato verso il firmamento, e poi il grido si trasforma in una serie di grugniti intelleggibili (por******a, scarponi di m***a!), e allora capisco che mi sono fatto suggestionare dall’ambiente e dalle leggende montanare che ci ha raccontato Daniele. Nessun demone delle montagne, nessun Gigiàt: è Alessio, scalzo (i calzettoni rosso fuoco sono decisamente inquietanti), che regge tra le mani i suoi scarponcini. Le suole, nel breve tragitto fino alla fonte, si sono letteralmente sbriciolate. Qualche anno di inutilizzo ed è successo il patatrac. Aurora se la ghigna, come potete vedere nella rappresentativa immagine qui sotto.
Daniele, come un novello McGyver, tira fuori dallo zaino dei cordini e cerca di rattoppare gli scarponi alla bell’e meglio, ma dopo alcuni minuti dobbiamo arrenderci al fatto che Alessio non potrà partecipare all’ascensione a Cima Fontana. Cala un po’ di tristezza, ma Alessio si fa coraggio e dice che ne approfiterà per riposarsi.
Sono quasi le tre del pomeriggio. Mi accorgo che Daniele scruta una cima che si erge davanti al bivacco e scalpita. Capisco che per me non ci sarà riposo. Guarda il picco, guarda me, l’occhio semichiuso di chi la sa lunga e di chi non ammette risposte negative. «Che dici, andiamo fin lassù a vedere?»
La montagna è affascinante, pare un colossale panettone spolverato di zucchero a velo. «Perché no?» rispondo.
Mentre Daniele prepara lo zaino per salire su quella cima di cui non conosciamo il nome – soltanto al nostro ritorno, consultando la cartina, scopriremo che si tratta de Le Ruzze, 2810 m – vediamo due puntini che arrancano in lontananza, sotto di noi. Alcuni minuti dopo ci raggiungono due ragazzi che passeranno la notte al bivacco. Sono due fotografi, superattrezzati, hanno intenzione di scattare delle istantanee del tramonto e dell’alba. Sono simpatici, chiacchieriamo un po’, poi ci avviamo verso la nostra destinazione, accompagnati da Valentina e Aurora che prenderanno il sentiero che le riporterà alla diga. Ci salutiamo in prossimità del Passo Confinale.
Io e Daniele cominciamo a salire. La foschia ci turbina intorno e c’è parecchia neve ghiacciata qua e là. Siamo in Svizzera, ci dirigiamo verso un punto che si affaccia sull’altra vallata, alle nostre spalle si erge una roccia turrita che, inevitabilmente, mi fa pensare a Kadath e megalopoli lovecraftiane assortite.
Voltiamo a destra, seguendo la cresta, e puntiamo verso la cima. Dopo un primo tratto di salita relativamente semplice, la pendenza comincia a farsi sentire. Un po’ troppo, per i miei gusti. C’è da arrampicare. Daniele comincia a salire leggiadro, poi si gira e mi dà i primi rudimenti di arrampicata. «Il segreto è avere sempre tre arti poggiati ben saldi. Sempre tre». Facile, mi dico. Più a dirsi che a farsi, ma dopo un po’ ci prendo gusto, è divertente andare su cercando una minuscola sporgenza dove far leva con lo scarpone, un incavo nella roccia dove aggrapparsi con le dita.
Arrivo in vetta senza neanche accorgermene, e… mancano le parole. La vista è splendida. Alla nostra destra si allunga il bacino verdastro, davanti a noi il monte Spondascia nero e striato di venature nevose.
È affascinante scoprire, esplorare queste vette poco note e battute, dai nomi che ai più non diranno molto (anch’io li ignoravo), ma dall’aria feroce e fiera. Signore Montagne. Lo Spondascia, che ci nega la vista del suo famoso vicino – il Pizzo Scalino – si erge oltre la Valle Poschiavina e ha un aspetto davvero duro e acuminato.
È impagabile la sensazione di libertà nell’intuire o inventare percorsi di salita e discesa lungo canaloni e creste pur facili, ma senza alcuna pista prescritta.
Le nuvole corrono davanti al sole creando strani giochi di luce-ombra. Impostiamo l’autoscatto, foto,
sigarettina meditativa, poi si torna giù attraverso un’altra via che attraversa ampi tratti nevosi (che in alcuni punti, battuti dal sole, sembrano immense distese di panna montata, e il mio compagno medita anche un tuffo da uno sperone di roccia).
Arriviamo al bivacco che è tardo pomeriggio. Il tempo è piuttosto nuvoloso, i due fotografi sono delusi, non potranno scattare immagini valide del tramonto. Ma le lamine di luce che filtrano attraverso le nuvole spumose sono uno spettacolo.
Ci raggiunge Alessio, che si è sparato una corroborante pennichella e impreca ancora contro i suoi sciagurati scarponi. Per tirargli su il morale lo portiamo alla fonte dove gli elargiamo alcune Bombe (aneddoti e storie di vita vissuta che si dicono sopra i 2000 m e devono rimanere sopra i 2000 m). Le nostre risate rimbombano nella vallata. Da qualche parte una marmotta lancia un fischio acuto, stizzita.
Tornati al bivacco, ci prepariamo per la cena. Il sole sta calando, e ancora una volta tre puntini avanzano verso di noi. Arrivano tre giovinotti, avranno vent’anni. Attrezzattura non proprio tecnica, zaini enormi, ramponi d’altri tempi, lunghe piccozze. Ci chiediamo che cosa se ne fanno. Ma la cosa che ci preoccupa di più è che il bivacco è praticamente al completo. Otto brande su nove saranno occupate.
Io, Alessio, Daniele e i due fotografi ci sediamo intorno al tavolo e mangiamo. I tre ragazzi rimangono fuori. Dopo alcuni minuti, attraverso la porta e le due prese d’aria che si aprono nella parete anteriore, filtra un aroma che poco ha a che fare con la montagna, ma che ricorda più da vicino le assolate spiagge giamaicane o i coffee shop di Amsterdam. I giovinotti si godono il meritato (?) riposo e poco dopo salta fuori anche una bottiglia di grappa, dalla quale io e Alessio attingiamo alcune golate.
Il sole cala a picco, il cielo s’incendia di rosa, l’oscurità prende il sopravvento. Decidiamo che è ora di ritirarsi, io e Daniele dobbiamo svegliarci alle 5,30 per l’ascensione a Cima Fontana. Alle sette e mezza ci prepariamo per la nottata, alle otto siamo in branda. Alessio, Daniele e io, in quest’ordine, partendo da terra verso il soffitto. Abbiamo parecchie ore di sonno a disposizione.
I tre giovini rimangono al tavolo a giocare a scopa e bere, i due fotografi s’infilano nei sacchi a pelo nelle brande opposte alle nostre.
Si sta bene nel bivacco, c’è un piacevole tepore. E io che temevo di patire il freddo, sogghigno. Dopo pochi minuti crollo in un sonno profondo.
Mi sveglio a un’ora imprecisata della notte, fatico a capire dove mi trovo. Ah, okay, sono in un bivacco a 2650 metri di quota. Ma sembra di essere in una foresta tropicale. Si cuoce, letteralmente. Il “piacevole tepore” si è trasformato in una temperatura da altoforno. Il mio respiro si è ridotto a un fischio sibilante, manca l’aria. Otto persone che respirano, russano ed emettono gas corporali di ogni tipo in un gabbiotto di metallo di circa otto metri quadri hanno creato un devastante “effetto stalla”. Mi accorgo che anche i miei compagni di “stanza” non riescono a dormire, la maggior parte sono svegli, soltanto un paio russano. Esco dal sacco a pelo, nel quale mi sono infilato vestito, e mi sporgo a guardare in basso. Daniele è in mutande, sveglio, ha mal di testa. Gli basta uscire dal bivacco (sempre in mutande) e prendere una boccata d’aria per riprendersi. Manca l’ossigeno, sebbene le due prese d’aria siano aperte. Anche Alessio è sveglio. Sono all’incirca le tre. Non riesco più a dormire, si muore di caldo e stare svegli a contemplare il soffitto non è il massimo. Dopo un’ora ne ho già le tasche piene. Poi una voce. «Gigi? Gigi? Non riesci a dormire?» È Daniele. «No, per niente», rispondo. «Nemmeno io. Che dici, tra un po’ partiamo?» Parole che risuonano nell’Anghileri-Rusconi come una benedizione, non aspettavo altro. «Partiamo».
Alle cinque meno venti del mattino siamo fuori dal bivacco, intabarrati in giacconi pesanti, gli zaini in spalla e le torce frontali piazzate sulla testa. Mi ero aspettato un freddo molto più pungente, invece non accusiamo la temperatura, che si aggirerà intorno ai meno due gradi.
Uno spicchio di luna, enorme, brilla nel cielo, illuminando di cremisi la faccia scura del satellite. E le stelle, per Dio, a quest’altezza, immersi nell’oscurità, danno vita a uno scenario indescrivibile. Così fitte e luminose e vive da fare quasi paura. Spegniamo le torce e ci godiamo lo spettacolo mangiucchiando un po’ di cioccolata. Poi ci avviamo verso la fonte, in direzione della nostra meta, Cima Fontana. Camminare immersi nel buio, guidati unicamente dai LED delle torce, dà una sensazione strana. Siamo immersi in un mare di oscurità e navighiamo nella nostra piccola barchetta di luce artificiale cercando di scorgere gli ometti di pietra e i bolli bianco-rossi del CAI tracciati sulle rocce. Scorgiamo un segno, lo raggiungiamo, ci mettiamo alla ricerca del prossimo, come in una sorta di caccia al tesoro.
È questo il mondo, quello vero. Sembra tutto così strano, e invece questo è il vero volto della notte delle ere geologiche prima e dopo la parentesi umana.
Spesso si usa l’espressione “fuori dal mondo” per descrivere come ci si sente in questi frangenti. E senza dubbio è un’espressione appropriata, ma se per “mondo” intendiamo il mondo dell’uomo. Perché se l’accezione fosse quella di “pianeta Terra”, allora sarebbe proprio il contrario. Ora siamo dentro il mondo.
Non lo vedi quasi mai.
Superiamo un primo passaggio roccioso, poi prendiamo un sentiero che si inerpica verso la cima, abbastanza esposto. «Fai attenzione all’Abisso», mi mette in guardia Daniele. Mi tengo lontano dal ciglio del sentiero che si affaccia sul buio, seguo il mio compagno. Raggiungiamo un grosso cippo di pietre e ci fermiamo per consultare le indicazioni stampate da Daniele. Bisogna raggiungere un pianoro punteggiato da piccoli laghi. Ci rimettiamo in marcia, scendiamo un po’, raggiungiamo una piccola distesa acqua. Dovremmo esserci. Cima Fontana ci sovrasta, alle nostre orecchie giunge un suono liquido. Un piccolo torrentello creato dal disgelo dei ghiacciai, illuminato dalle stelle, scorre ad alcune decine di metri davanti a noi, proprio ai piedi dell’ultimo attacco per Cima Fontana. Ma è buio. Comincia a venirci qualche dubbio circa la strada da seguire, non troviamo più gli ometti e i simboli, e le indicazioni parlavano di più laghi, noi ne abbiam visto solo uno. Daniele fissa la vetta, poi un canale spruzzato di neve che pare una via accessibile. Infine guarda me. «Che facciamo?» chiedo. Mi risponde con un’altra domanda «Saliamo da lì?» Ci fissiamo alcuni istanti, poi un cenno d’assenso. Si riparte. Dobbiamo affrontare un ampio tratto di sfasciumi imperlati di brina, e nemmeno le suole Vibram possono nulla contro la rugiada sulle pietre lisce. Mi sembra di camminare sul sapone.
Gigi ha appena scoperto le gioie del vetrato. Si forma quando non c’è neve e il freddo gela l’umidità sulla roccia, creando uno strato sottilissimo di ghiaccio, invisibile e infido. È una delle massime insidie della montagna.
È la parte più tosta dell’ascensione, cerco di piantare i piedi nel terriccio, ma gli spazi disponibili sono davvero pochi. Intanto la prima luce dell’alba fa capolino da dietro i picchi, sbiadendo le stelle. Daniele, sempre in testa, mi aiuta dandomi dritte e incoraggiandomi.
Troviamo un bel diedro, molto appoggiato, di roccia sana e spoglia da vetrato. L’intenzione era di raggiungere un costone davanti a noi presso una sella innevata, e da lì salire sulla cresta sud-est. Ma il diedro mi sembra una via preferibile a questa ripida morena sdrucciolevole e pieghiamo a sinistra, dritti verso la cresta che ci sovrasta. Si sale molto bene.
Infine, la vetta… faccio il segno dell’okay col pollice al mio compagno, ma lui scuote la testa e indica alla sue spalle. «Siamo su un’anticima. La Fontana è quella lì dietro». Ci sarà ancora un’oretta di marcia. «Okay, andiamo». Mi rendo conto che più ci si avvicina alla vetta, più la smania di raggiungerla aumenta.
Superiamo un tratto di cresta aerea, aggiriamo uno sperone e puntiamo ancora verso l’alto. Finalmente gli sfaciumi lasciano spazio a una roccia piuttosto ruvida dove gli scarponi hanno buona presa.
Rosseggia il ghiacciaio dello Scalino, oltre la costiera delle Ruzze che abbiamo solcato ieri. Sembra un castello galleggiante sopra una nuvola.
Poi arriva la neve ghiacciata, la pendenza è severa. Daniele crea degli scalini nella neve per rendermi più agevole la salita, anche qui in alcuni tratti bisogna arrampicare su grosse rocce sporgenti. Poi un altro tratto di sfasciumi scivolosi, Daniele mi precede, scompare. È su; a me mancheranno cinque minuti di cammino.
foto L.M.Quando lo raggiungo, il fiato corto e le gambe molli sono un ricordo lontano. Passa tutto. La stanchezza, i brutti pensieri, la sete, il freddo, svaniscono di fronte al panorama che mi si apre davanti. Il sole è un disco dorato, l’alba è esplosa in tutta la sua magniloquenza, è “solo” un 3000 ma io mi sento sul tetto del mondo, sorrido a Daniele, poi mi sporgo oltre la punta, di fianco a una scultura col volto della Madonna, sono feli
«Oh oh oh!» mi grida Daniele, interrompendo lo slancio estatico provocatomi dal raggiungimento della cima. «Occhio all’Abisso!»
Trattengo il respiro. Mi sono sporto un po’ troppo, sotto di me uno strapiombo. Daniele mi tira indietro. «Siediti qua». Mi spiega che a volte capita, quando si raggiunge una vetta, di perdersi di fronte allo spettacolo offerto dalle montagne, di avere dei giramenti di testa… e andare giù è un attimo.
Mi metto seduto, mangio un pezzo di cioccolata, bevo e assimilo il nutrimento ma soprattutto il paesaggio. Daniele mi mostra le cime più importanti che ci circondano, maestose, splendide, in qualche modo terribili.
S’intravede il Monte Disgrazia come una visione, il gruppo del Bernina, la Crest’Aguzza, il Bellavista, i pizzi Argient e Zupò sono vicinissimi e selvaggi, e le tre cime eleganti del Piz Palù, che Daniele fissa con nostalgia. Ma la vista più impressionate di tutte è quella offerta dal ghiacciaio di Fellaria, un mostro di ghiaccio con la schiena devastata da enormi seracchi che sprofondano nel suo corpo massiccio per una profondità di trenta, quaranta metri.
Termina in terrificanti cascate che precipitano giù dagli strapiombi fino a infrangersi sul ghiaccio.
Mi butto nella retorica più bieca, ma descrivere le sensazioni di quei momenti non è cosa facile. Siamo in due, completamente soli, il bivacco è distante, abbiamo faticato per arrivare fino in vetta (più io che Daniele, credo!) e soddisfazione, appagamento e, perché no, anche un filo di commozione si mescolano in un’emozione unica. E poi c’è uno strano senso di timore reverenziale e rispetto per i titani di roccia che ci circondano.
Io e Daniele ci stringiamo la mano, è fatta. Il sole è ormai abbastanza alto, incendia il ghiacciaio di un giallo intenso. Non vorrei più scendere, ma Alessio ci attende al bivacco, e poi ci aspettano ancora un paio di ore di marcia per tornare alla diga e da lì prendere la macchina diretti al “campo-base” di Torre de’ Busi.
E questa volta, finalmente, percorriamo la via normale, che passa su una lunga cresta sovrastata dal Varuna, per poi discendere nella zona dei laghetti che all’andata non eravamo riusciti a trovare.
Attraversiamo anche il lembo superstite del ghiacciaio che non troppi anni fa riempiva questo bacino, poi scorgiamo il grosso cippo di pietre dove avevamo perso le tracce degli ometti e dei bolli bianco-rossi.
Contempliamo da qui la Cima Fontana, ripercorrendo con gli occhi il nostro itinerario.
Siamo molto contenti dell’errore che ci ha condotti fuori strada, così abbiamo avuto la scusa per compiere, piuttosto che un su-e-giù dalla Normale, una più interessante e impegnativa traversata – salita dalla cresta sud-est, discesa dalla normale sulla cresta nord-est.
Più o meno alle dieci siamo nuovamente all’Anghileri-Rusconi. Alessio è in piedi, ci salutiamo, salutiamo anche i tre giovinotti che paiono piuttosto provati dalla serata di bagordi, mentre i due fotografi sono già andati via.
Diamo una sistemata al bivacco, prepariamo gli zaini e ci incamminiamo verso valle. Una discesa piacevole, non tanto per Alessio però: le sue suole si sono staccate del tutto, e Daniele le sistema con altri cordini. Sembra che abbia le ciabatte, lo sfottiamo un po’, alla fine decide di abbandonare le suole e camminare con ciò che resta degli scarponi. Se la caverà con qualche vescica e un po’ di male ai piedi.
Scattiamo la foto di rito che dopo il bivacco presso il rifugio Omio è diventata un must (“Guardate tutti una cima da conquistare!”) e in un’oretta e mezza siamo al parcheggio, ai piedi della diga.
Dove facciamo amicizia con un simpatico asinello che si ingolla felice le ultime albicocche essiccate di Alessio.
Infine un ultimo sguardo alle montagne alle nostre spalle. Ci aspettano due ore di macchina fino a casa di Daniele.
Poi io devo percorrerne altre due e mezza, tre, per tornare in Piemonte. La fatica mi cala addosso di colpo, sono a pezzi, le gambe ridotte a due tronchi.
Ma non me ne frega niente.
Perché sono stato bene. Con splendide persone, in splendidi posti.
E so che prima o poi ci tornerò.