Fantasmi
Ultra Trail del Lago d’Orta 2016
(90 Km, 5800 m dislivello positivo), 23/10/2016
Reportage
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Orrendo dilemma: tagliare o non tagliare le unghie dei piedi?
Le scruto con attenzione, accucciato nel mio giaciglio in palestra. Sono le tre del mattino e siamo tutti svegli. Non sono tanto lunghe, ma col passare delle ore potrebbero darmi fastidio e mi maledico per aver dimenticato questo dettaglio. Avrei dovuto sistemarle un paio di giorni fa. Farlo ora potrebbe significare farlo male, magari procurarmi un minuscolo taglio e peggiorare nettamente la situazione.
Ma tagliamo. Deciso. Ottenuta una forbicina grazie a una gentilissima vicina di giaciglio (le donne sono sempre attrezzate per queste cose), procedo riuscendo a non fare danni, poi infilo calze e scarpe, mangio un po’ di frutta secca, studio ancora un po’ l’altimetria (che so ormai a memoria) e via con i soliti rituali pregara.
La mia prima ultra-ultra. L’obiettivo di quest’anno (di mia moglie e mio) era di superare la distanza di maratona, e avevamo puntato una gara di 47 Km con 3,300 di dislivello (il trail della Becca di Viou), che ci sembrava una cosa davvero epica, una meta forse un po’ troppo ambiziosa. Gara che poi non abbiamo fatto: ne abbiamo fatte altre più lunghe. E ogni volta veniva voglia di fare un po’ di più. E adesso in qualche modo eccomi qui: in partenza per una gara che è due maratone più mancia, con quasi 6,000 metri da fare in su, e altrettanti in giù… Ovviamente l’obiettivo è arrivare in fondo, e la classifica del tutto secondaria – anche se mi conosco, e so bene che, una volta in gara, gareggerò con tutto quello che ho.
L’atmosfera che si respira all’UTLO è fantastica. Distribuiti sulle quattro distanze (17, 34, 57 e 90 Km) siamo in millecinquecento, un po’ da tutto il mondo (trentadue i Paesi rappresentati). Colori, suoni. Voglia di mettersi alla prova, di confrontarsi coi propri limiti. Voglia di correre. Ieri sera, quando sono arrivato, ho trovato l’intera, incantevole cittadina di Omegna – abbarbicata dove il lago si stringe in fiume (stranamente verso nord) – trasfigurata a festa in teatro dell’evento. Un’invasione di trailer, accolti da un tripudio di fiori e da un gigantesco logo tridimensionale e luminoso su un’isoletta. E poi il village, dove incontrarsi tra musica, stand di prodotti tecnici (i nostri giocattoli preferiti) e risate, e dove ci nutrono generosamente – oltre a un buon risotto non mancano le verdure, cosa insolita in questi contesti, e assai gradita.
Poi la notte in palestra, tutto sommato confortevole e tranquilla. Avendo a casa bimbe malefiche esperte nelle arti delle sveglie notturne, qui mi pare di riposare divinamente.
E poi la sveglia alle due e mezza, la famosa questione delle unghie, e torniamo al village lungo la suggestiva passerella per bere un caffè e venire al dunque (errore da principianti: pago con banconota e dovrò portarmi dietro il resto in moneta per novanta chilometri!). Perché, in fin dei conti, non siamo qui per cazzeggiare, giusto?
Eccoci, quattrocento pazzi con frontali in testa che assediano il lungolago.
Fa freddo, ma non troppo. Una manciata di gradi sopra lo zero.
Sistemiamo cinghioli e cinghiette per l’ennesima volta. La voce calda e appassionata del commentatore ci augura buon viaggio. Il volume della musica cresce. Conto alla rovescia.
Via.
immagine tratta dal sito ufficiale dell’evento (www.ultratraillo.com)
Si sale subito, e io ne sono grato a chi ha tracciato il percorso.
Mi scaldo con molta calma. Ci metto sempre parecchio a ingranare e le prime due ore di solito servono alle mie gambe per passare dalla ghisa al legno, fino a qualcosa di vagamente malleabile. Rimango nel fondo del gruppo mentre il serpentone di luci sale davanti a me. Macchie di colore impressioniste nel buio. Osservo, sulla sinistra, luci arancio che oscillano sul lago nero. Siamo tutti piuttosto silenziosi, come sempre in queste fasi.
Qualche goccia d’acqua dal cielo.
Però le previsioni davano asciutto sicuro. Mah, sarà una scrollatina di passaggio. Non dà nemmeno fastidio, finché è così. Mi fermo a mettere la giacca.
Però a mano a mano che saliamo, col lago che s’intravede un po’ meno nero tra le fronde, la pioggia si fa più fitta. Una pioggerella continua, penetrante.
Questa salita è rotta da vari cambi di pendenza, brevi discese e falsipiani. Faccio la massima attenzione ad affrontare questi cambi con molta dolcezza, gradualmente, lasciando che le gambe si abituino a poco a poco al nuovo passo, senza mai buttarmi giù appena inizia una discesa o partire in quarta per inerzia su una salita – e continuerò con la stessa diligenza per tutta la gara.
Sbuffo come un mantice e salgo.
Quando raggiungiamo la cima, a quota 1500, ormai non è più notte ma ci si vede meno di prima: è calata una nebbia compatta nella luce grigiastra dell’aurora. Accendendo la frontale, tutto ciò che vedo è il riflesso di una miriade di goccioline d’acqua e della nebbia. Gli altri corridori sono bagliori che sbucano dal nulla per ripiombarci, come fantasmi. Meglio tenerla spenta, mentre ci facciamo strada sulle roccette tecniche della vetta e iniziamo una discesa molto ripida e impegnativa – bado a contenere il passo, che qui vorrebbe aumentare sua sponte; ma no, è presto, molto presto: bisogna conservare le forze, bisogna conservare i piedi… – spezzata da un breve tratto di saliscendi dove ci attende il primo ristoro, all’Alpe Camasca.
Continua a piovere.
Arrivati al villaggio di Fornero, in fondo alla discesa, ha smesso e la nebbia si è sollevata. Sono passate un po’ più di tre ore dalla partenza. Qualche raggio di sole filtra tra le nuvole e dalle rocce attorno si alza un respiro umido e fresco.
Forse il peggio è passato.
Adesso ci aspetta la salita più dura del percorso. In due ripidi strappi separati da una breve discesa, guadagneremo più di 1100 metri di dislivello in circa cinque chilometri, raggiungendo poco meno di 1700 metri di quota.
L’approccio aumentando leggermente il ritmo, ma ancora con molta cautela. Le gambe rispondono bene: ormai ho carburato, s’inizia a ragionare. Mi do la direttiva di impostare un’andatura appena superiore a quello di chi ho attorno, superando gli altri ma a poco a poco.
Procediamo lungo prati spogli, mentre gli avvallamenti soffiano in su una bruma fredda e bagnata che penetra nelle ossa.
La salita è dura.
Quasi in cima, gli organizzatori hanno allestito un ristoro volante, non previsto, dove dei magnifici volontari hanno portato su a spalla il necessario per offrire un bicchiere di tè caldo a ognuno di noi.
Aiuta parecchio.
Poi partiamo, su e giù per un tratto di cresta invisibile.
Non c’è nulla alla nostra destra né alla nostra sinistra.
Poi una discesa tecnica, e qui, col cuore che riduce i colpi e il motore che abbassa i giri, il freddo diventa terribile. La pioggia ricomincia e fa subito sul serio.
Comincio a sentire delle cose nel ginocchio, come un sassolino che si muove malamente sotto la lunga e slabbrata cicatrice da motosega che me lo decora. Freddo e umidità gli stanno facendo fare le bizze come non accadeva da tempo. Se si blocca, come spesso ha fatto in passato nei tratti di pianura o discesa corribile, va proprio in tilt e non c’è modo di continuare. Rallento. Cerco di non forzare troppo e incrocio le dita…
Finita la discesa, il ginocchio è sopravvissuto; e la salita non ha mai costituito un problema.
Smette di piovere un’altra volta, e per qualche minuto la luce filtra tra le nuvole, anche se il sole non si vede, e inonda il bosco luccicando sul torrente che attraversiamo prima di ricominciare a salire.
Di nuovo, aumento un po’ il ritmo rispetto alla salita precedente, ma sempre senza esagerare. Tuttavia, supero parecchi concorrenti, diversi dei quali in chiara difficoltà.
Non si vede niente.
Gli incontri si fanno più sporadici. Fantasmi che appaiono delineandosi fuori dalle spire biancastre.
Guardando l’orologio, mi rendo conto che sono un po’ in ritardo rispetto a una fantomatica tabella di marcia che non ho. Insana la tentazione di aumentare il ritmo. Lo so. Eppure, mi vince: aumento.
Al ristoro dell’Alpe Sacchi, dove passo in sette ore e un quarto, mi nutro di brodo (fondamentale scoperta del trail dell’Adamello: brodo!), poi c’è un ultimo strappo in mezzo al nulla.
Mi rendo conto che sto superando con troppa facilità gli altri – e troppi di loro. Ho esagerato e so già che, anche se adesso mi sento bene, la pagherò. Ma ormai è andata.
In discesa fa un freddo cane e siamo fradici. La giacchetta Salomon che mi ha regalato mio padre è una bomba, leggerissima e assolutamente impermeabile, però non è magica: contro l’umidità nell’aria può ben poco, e poi in salita hai due opzioni: o la togli e t’inzuppi, o la tieni addosso sudi come una bestia, e t’inzuppi. Ho i capelli grondanti, e i miei capelli sono lunghi e sono tanti. Ormai ho già usato gli indumenti di ricambio e non ho più nulla di asciutto. Mi cambio comunque la maglia perché almeno quella che ho cambiato prima è stata per un po’ nello zaino, contro la schiena, e adesso è vagamente tiepida. Il ginocchio sembra essersi chetato, però piedi e gambe cominciano a pretendere di essere ascoltati nelle loro proteste più ordinarie.
Dopo un primo tratto tecnico c’è un falsopiano, e lì le gambe s’incartano con molta determinazione a non disincartarsi punto.
Smette di piovere, quantomeno.
Poi c’è una lunghissima discesa corribile su strada sterrata, e non aiuta la monotonia di questo tratto dove arranco malamente e vengo superato più o meno da tutti coloro che avevo ripreso in salita. Il che è sempre abbastanza scoraggiante.
È dura. Ma è per questo che sei qui, no? Stringo i denti.
Un paio di boscaioli ci vedono passare e chiedono ai due trailer che mi precedono di che corsa si tratta. Loro glielo dicono. Quando i due locali sentono “novanta chilometri” si mettono a ridere di gusto.Base vita: Arola
Quasi al 45° chilometro. Più o meno a metà classifica e a metà gara, ma con forse due terzi del dislivello fatto. Quasi per tutti questo è bene, per me insomma, visto che vado sempre discretamente sul ripido (in su o un giù), mentre temo moltissimo i tratti di pianura che mi aspettano nei prossimi venti chilometri, oltre all’ultimo tratto prima dell’arrivo: tre chilometri circa di lungolago piattissimo che nella mia mente è una sorta di muro verticale alto altrettanto.
Fin qui, otto ore e mezza; non proprio un tempo eccezionale, ma poco importa, va benissimo così.
Per fortuna qui alla base vita troviamo le nostre borse-cambio: nella mia sono stato abbastanza previdente da mettere indumenti caldi in barba alle previsioni del tempo ottimistiche, una salvietta e una crema per i piedi. Mi siedo, mi spoglio e mi cambio; ma prima, a piedi nudi corro fuori, dove c’è un giardinetto con una fontana dove, tra l’ilarità dei bambini presenti, immergo i piedi per un tot. Poi li incremo, mi rivesto, asciugo i capelli con la salvietta, mangio un po’ di minestra e riparto – portandomi dietro dopo breve riflessione anche la salvietta.
Va molto, molto meglio. Mi sento davvero rigenerato. Qui c’è un tratto semipianeggiante asfaltato che sulla carta dovrebbe uccidermi, invece lo affronto lentamente ma senza grosse difficoltà.
Ricomincia a piovere.
Dopo il trattamento della base vita salgo molto bene. Appena inizia a impennare, cambio marcia e vado.
Magari può sembrare strano vedere un tizio nel bosco con un turbante rosso in testa, ma devo dire che tenere la chioma per un po’ al caldo nella salvietta non è male.
Le gambe sono pesanti – cinquanta chilometri e quasi quattromila metri di dislivello su e altrettanti giù sono lì nei quadricipiti e li sento tutti a ogni passo – ma girano bene. Mi concentro sul gesto. Cerco di accordare i miei passi al ritmo del cuore e dei polmoni, mentre con le mani spingo forte sulle ginocchia.
L’intera salita è una lotta con un terzetto di tedeschi, che mi riprendono appena la pendenza molla un poco, mentre io li lascio indietro dove riattacca.
Questo tratto devo dire che è un po’ noioso. A parte le vette delle prime due cime, in effetti siamo stati quasi sempre in un su e giù nel bosco, senz’altro bello e reso affascinante dall’autunno, ma alla lunga diventa alienante la sensazione di procedere e essere sempre nello stesso posto. Naturalmente, senza nebbia sarebbe probabilmente un pochetto diverso.
Sulle roccette della vetta – sono quasi le due del pomeriggio – incontro un tifo caloroso nonostante le oscene condizioni ambientali e raggiungo un trailer con cui scambio qualche chiacchiera mentre ci avvolge di nuovo una coltre biancastra, fittissima.
La discesa che segue sarà la parte chiave, per quanto mi riguarda: quindici chilometri di discesa molto corribile, spezzata da tratti pianeggianti o di falsopiano.
Vado, ovviamente, in crisi quasi subito.
Il mio compagno di viaggio s’invola, e mi superano diversi altri concorrenti.
Ho le gambe svuotate, la testa frastornata che pare essersi mutata in una grossa campana con cui un campanaro folle ha una relazione alquanto traumatica.
Sono fradicio e sporco, pestorlato e dolorante quando in qualche modo raggiungo il ristoro di Boleto, dove incontro un amico che, come tanti altri oggi, si è ritirato. Anch’io sono arrivato qui per pura forza di volontà, in chiaro disaccordo col mio corpo, promettendogli per tenerlo a bada che avrei ripetuto il trattamento-piedi che, alla base di Arola, mi aveva fatto così bene. Oltre al brodo. Ci provo: mi siedo un attimo, tolgo le scarpe, massaggio i piedi, incremo, cambio le calze (rimetto quelle che ho tolto prima, non ne ho un terzo paio, per cui è una cosa per lo più simbolica), mangio un po’ di minestra, riparto.
Stavolta però la magia non funziona. Le gambe non ne vogliono proprio sapere, inneggiano al mio licenziamento, e alcuni dei loro slogan sono molto convincenti. Mi mancano quasi trentacinque chilometri. Come faccio a percorrerli in queste condizioni? Impossibile.
E poi la nebbia si solleva, e arriva la luce.
Succede proprio alla Madonna del Sasso, un santuario su uno splendido belvedere a picco sul lago.
Io sono nato sul lago. Non questo; uno che ha un ramo che volge a mezzogiorno tra due catene non interrotte di monti: un po’ più grande, ha una faccia più cattiva, ma molto simile. Attorno al lago ho vissuto, sono cresciuto, ho studiato, e ci ho passato buona parte della mia giovinezza col culo sul sedile di un kayak da discesa. Il lago è stato testimone, sfondo e compagno di amicizie, amori, giochi, avventure, un’infinità di storie. E, dovunque io possa vivere, lo porto dentro di me.
Così, a questa vista, cambia tutto.
E finalmente si scende seriamente, su un sentiero-toboga lunare, divertente. Sorrido, improvvisamente ebbro; scambio due chiacchiere con un concorrente spagnolo della 57 Km (i nostri percorsi hanno diversi tratti in comune), col quale concordiamo che, dopotutto, allora il lago esiste davvero. Scendo bene. Riprendo il mio compagno di viaggio di poco prima e stavolta è lui a rimanere indietro. Mi sento rinato. Sento scorrere in me energie segrete. Ed è proprio questo senso di resurrezione quello che, credo, siamo qui a cercare oggi in tanti.
Qualche volta arriva, qualche volta no.
Il momento in cui superi quello che credevi impossibile superare.
Trabocco serotonina, trasudo endorfine. È una droga potente, molto potente.
Arriviamo sul lungolago, e corro bene. Anzi, devo ordinare alle gambe di rallentare. Osservo il paesino sull’altra sponda, di cui ignoro il nome, che sembra fluttuare – non del tutto reale – sull’acqua quieta. Scorro con gli occhi sui versanti boscosi che incassano lo specchio d’acqua, proteggendolo da sguardi indiscreti, custodendolo gelosi come con un gioiello prezioso. Le sue montagne se lo tengono stretto con romantica segretezza.
Passiamo un cimitero e ci inoltriamo tra casette di pietra, e inizia la quinta salita.
Come inizia, lascio subito indietro il gruppo che si era formato sul lungolago.
Mi sento davvero bene, in forma, quasi tutti i dolori sono rimasti là nella nebbia. Decido di fidarmi della sensazione e attacco.
Entro in modalità meditativa, come sempre in salita e sempre più a ogni salita – ci vuole tempo, ci vuole spazio. Mi concentro di nuovo su cuore e polmoni, e adesso sento il sangue e ci lascio scorrere insieme tutto ciò che mi circonda, fuori e dentro di me, senza trattenere nulla.
È tutto chiaro. Anche se ora in effetti non ricordo cosa.
Il lago comincia a farsi scuro, mentre le idee si fanno più chiare.
Divoro questa breve salita assaporando la fatica, sublimandola, superando una ventina di concorrenti; procedo senza problemi nel successivo tratto di saliscendi, passando a Grassona attorno alle tredici ore.
Poi gli atleti della 57 km prendono una via differente, salutandomi con sguardi e parole di stima che mi galvanizzano parecchio, e dirigendosi verso il traguardo direttamente, mentre per noi c’è un ultimo ostacolo da superare.
Mentre cala la notte, imbocco la salita che mi porterà all’Alpe Berru. Supero quasi subito un trailer francese, e poi non c’è più niente.
Fantasmi.
Luce in cima alla rampa. Tic-tic di bastoncini sul cemento. Nel nulla, una presenza.
Per qualche ragione che fatico a spiegarmi, le gambe sono state sostituite da un paio di pistoni cibernetici di contrabbando: sto forzando il ritmo come se fossi uscito di casa mezz’ora fa per fare un medio tirato. E so bene che è un equilibrio fragilissimo. Ma questo lo rende ancora più esaltante.
Lo raggiungo in cima alla salita.
Ci scambiamo uno sguardo e un sorriso che durano un istante e che ricorderò per sempre.
Poi, quando mi volto, lui non c’è più.Corro nel buio. Spengo la frontale, per un attimo. Per vedere l’oscurità perfetta che mi circonda.
Non c’è nessuno, solo strane luci come occhi tra gli alberi tra i riflessi della mia frontale e i catarifrangenti delle balise. Rumori striscianti tra le fronde e i rami spogli, il fruscio delle foglie secche sotto i piedi. Sussurri.
Discesa folle, ubriaca. Mi perdo. Proprio adesso, certo.
Dove sono finito? Stringo il raggio della mia frontale, trasformandolo in una lunga lancia di luce, e ruotando lentamente la testa la faccio scorrere attorno sul panorama nero. Ecco un bagliore, la balisa, più in alto. Risalgo ravanando e graffiandomi tra gli sterpi. Ho perso cinque minuti, nulla di male. Dopo un po’ raggiungo due concorrenti fermi, che mi guardano con occhi spiritati. Va tutto bene? Sì, mi dicono, con aria distante. Adesso ripartiamo. Sicuri, eh? Sì, sì, tranquillo. Le voci, gli occhi, altrove.
Mi butto di nuovo senza senso. Voglio riprendere qualcun altro, risalire un’altra posizione almeno. Naturalmente cado. Riparto. Che senso ha prendere una storta qui, tutto per tentare di arrivare centodiciottesimo invece di centodiciannovesimo? Non lo so, ma non ha molta importanza, vado giù a rotta di collo lo stesso.
La vegetazione si fa foltissima, il sentiero stretto passa in quella che i miei sensi alterati percepiscono come una giungla primordiale.
Poi ci sono delle luci, dei palloncini. Un laghetto. L’ultimo ristoro.
Entro, mi accoglie un uomo con un sorriso enorme e l’aria quasi commossa. Bravo, mi dice, ci sei, dài, hai bisogno di qualcosa? Io ringrazio di cuore, mi concedo qualche pezzo di formaggio e riparto.
Il lago nero si affaccia tra le fronde.
E adesso piombo sugli ultimi forse-tre chilometri, il lungolago che temevo tanto; per tutta la gara me lo sono figurato come una sorta di calvario in cui avrei certamente camminato, molto probabilmente strisciato.
E invece eccomi a correre con tutto quello che ho, con l’odore del lago nelle narici e la musica là alla punta nord, dove ballonzolano le luci a ogni passo; supero svariati concorrenti della 57 e un paio della 90, e in meno di un quarto d’ora è fatta.
Arrivo.
Tifo, applausi, sorrisi, casse che annunciano il mio nome sopra la musica, pacche sulle spalle e strette di mano indistinte.
Centodiciassettesima posizione assoluta. Sedici ore e mezza. Più del previsto, però comunque un tempo dignitoso, per i miei standard. Ma tempo e classifiche sono gli ultimi dei miei pensieri, adesso: nei prossimi giorni mi trastullerò con algebra e confronti vari (rendendomi anche conto con incredulità di aver percorso gli ultimi 30 Km, con tutti i loro dislivelli, in meno di tre ore e mezza – caspita!); ma ora li registro passivamente e basta.
Mi siedo su una panca di una comodità impressionante, respiro. Mi alzo, staffilata al polpaccio destro (una contrattura che mi porterò dietro per un paio di settimane); lo ignoro e zoppicando verso il bancone del pasto (ho una fame disumana che durerà giorni e giorni) guardo la medaglia finisher, osservandola come un oggetto alieno, come non capissi esattamente di cosa si tratta. Poi me ne rendo conto, e allora mi si riempiono gli occhi di lacrime. Mi ci vuole un certo sforzo a trattenerle e mantenere un’aria da duro. Mangio e credo di essermi meritato questa birra.
Fantasmi: osservo dalla mia panca i volti pallidi che mi circondano sotto le bandiere multicolori. Come siamo diversi, rispetto agli individui carichi e atletici di stamattina! Spettri di noi stessi, sfiniti e claudicanti, lo sguardo distante, eppure abbiamo tutti una strana, profonda luce negli occhi che solo noi possiamo comprendere. E solo in parte.
Oggi abbiamo superato il limite, ci siamo spinti Oltre, e poi con sprezzo del tutto irrazionale siamo andati avanti. Spaventosamente oltre (per questo si chiamano “ultra”). Siamo morti e risorti non una, ma più volte. E adesso eccoci qui, insieme.Tornare alla palestra: quei cinquecento metri sono atrocemente lunghi. Li spezzo con un caffettino a un bar. Delizioso. Ci arrivo.
Dopo una doccia calda e ridanciana con vari altri sopravvissuti, approfitto della presenza di meravigliosi fisioterapisti; un massaggio tonificante è quello che ci vuole adesso, perché sono le undici, più o meno, e mi aspettano un paio d’ore di guida per tornare a casa.
E in qualche modo ci torno.
Anche se non racconterò la scena pietosa della salita del sentiero che conduce a casa mia. Davvero, è meglio così.
E adesso? Adesso la stagione è finita. Ma l’anno prossimo bisognerà fare di più.