Definisce chi sei
Cevedale (3769 m), via normale, 22-23/08/2011
Foto di Valentina Erba e mie
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Mi alzo e Valentina mi chiede: perché non andiamo oggi?
Parla del Cevedale, naturalmente. Sono alcuni giorni che stiamo vedendo di organizzare la cosa. Da quando sono sceso dal Palù non faccio altro che parlarle di ghiaccio e neve, e finalmente si è decisa: portamici. Per quanto sia molto più brava di me su roccia, per quanto vada in montagna da quand’è nata e sia figlia di una guida alpina, non ha mai indossato i ramponi. Tempo di rimediare…
Sono le 9.30. Alle 12.30 (tempo di sbolognare le bimbe, preparare l’attrezzatura e recuperare scarponi e ramponi per lei) siamo in auto.
Santa Caterina di Valfurva ci accoglie alle 15.30. In auto raggiungiamo l’albergo dei Forni (2.176 m) e ci mettiamo subito in marcia, la cena al rifugio Casati ci aspetta alle 18.30 in punto. Zaini in spalla (14 Kg il mio – sì, forse potevo stare più leggero, ma avevo sottomano solo la corda da 60 m -, 8 Kg il suo), si parte. Camminiamo su per la val Cedec nello splendido ambiente del Parco dello Stelvio.
Appare già il Tresero sulla destra, e sulle vette si fanno sempre più definite gigantesche lingue di ghiaccio, che non vediamo l’ora di raggiungere.
Ma il cammino non è breve, e quando avvistiamo il Gran Zebrù, magnifico e imponente nella sua perfetta geometria piramidale, è coperto da una nube un po’ troppo scura, che si fa via via nerastra. Il cielo era terso fino a poco fa, eppure io sento aria di pioggia.
Allunghiamo il passo. Alla peggio, ci fermeremo a dormire al Pizzini, a quota 2.706, anche se preferiremmo di gran lunga raggiungere il Casati stasera, così da evitarci il duro strappo morenico necessario per raggiungerlo domattina col buio.
Comincia a piovere, ma sono gocce rade che non fanno che rinfrescarci. Decidiamo quindi di proseguire oltre il Pizzini, sono circa le 17.00 e siamo in orario. L’unico problema è il mal di testa causa aria condizionata dell’auto che mi ha fregato (come al solito), e mi sta aprendo il cranio.
Mi conforta la vista sublime del Gran Zebrù e ora, sulla destra, comincia a apparire la mole bianca della nostra meta, il Cevedale, mille metri più in alto.
Durante l’ultima ora di marcia, la comoda carrareccia dalla pendenza dolce cede di colpo il posto a un sentiero su sfasciumi, ripidissimo su per un costone che macina 400 metri di dislivello in pochissimi di sviluppo.
Tornanti su tornanti serpeggiano e la mia testa mi massacra. Ma mi guardo in giro, non c’è nessuno, penso a dove siamo e tutto sommato me la godo comunque. Continuo a osservare i nuvoloni, che restano in agguato ma continuano a rilasciare solo gocce sporadiche.
Alle 18.30 in punto emerge, di colpo, la sterminata distesa del Ghiacciaio dei Forni nella luce calante. Quota 3.254. Il Casati è di fronte a noi, un molo sopra un mare congelato. Alla nostra destra questo grande altipiano comincia a salire in un pendio costante che si inarca in larghissime gobbe. In fondo, è fermato dalla parete bianca del Cevedale, che ha un aspetto nobile, bellissimo e pacato.
Entrato nel rifugio, al cambio repentino di temperatura, la testa chiede di essere ascoltata e mi consegna un forte malessere. Mi godo un ottimo minestrone di verdure, ma sto troppo male per i profumatissimi formaggi locali (tra cui il Bitto!), insalata e dessert. Valentina però acchiappa quantomeno i primi, e me li consegnerà più tardi in camera.
Questa non è una camerata, ma una graziosissima cameretta con letto a castello, ci siamo solo noi due e la finestra del secondo piano regala una vista magnifica sul ghiacciaio e sulla Cima Cevedale, la vetta più a est di quella principale.
Osserviamo il percorso che ci attende domani, dapprima una camminata di circa un’ora su per i pendii di neve, per poi affrontare la parete finale di circa 200 metri di dislivello. Dovremo superare la larga crepaccia che spezza a metà la parete, quindi procedere in cresta per l’ultimo breve tratto.
Il Cevedale ha fama di “grande montagna facile”, ma nelle relazioni più recenti che ho letto si parla, a causa del ritiro dei ghiacciai, di molti nuovi crepacci aperti e di ghiaccio vivo sulla parete. Staremo a vedere, siamo pronti. Il mal di testa intanto sta passando.
Durante la notte il profilo delle cime balena e scompare nel nero alla luce di lampi e risuonano scoppi di enormi tuoni. Lassù impazza una tempesta. Le nuvole hanno finalmente dato l’assalto.
Alla mattina il tempo è splendido. Dopo colazione (che non servivano prima delle 6.00 – a noi sarebbe piaciuto partire prima, ma in effetti essendo già sul ghiacciaio non è indispensabile, e il cammino non sarà lungo), scendiamo dalla terrazza del rifugio, percorriamo una ventina di metri giù per la morena, e siamo sul ghiaccio. Ramponi ai piedi, si va.
Il cammino è piacevolissimo. Dopo qualche minuto di passi goffi, Valentina avanza come se fosse nata con i ferri ai piedi. Ci sono tre cordate davanti a noi e due dietro. Seguiamo le tracce già chiare, che si disperdono sui tratti più ampi, e attraversiamo una prima zona di ghiaccio nero crepacciato ma da fessure molto strette. Nessun problema. Si cammina molto bene e la neve è dura. Soffia un vento molto freddo che porta la temperatura attorno ai 2 gradi.
foto V.E.
Saliamo un primo pendio, e ci ritroviamo a contemplare un paesaggio fantastico. Pare di camminare sopra una gigantesca nuvola e cime più basse spuntano oltre i bordi di questo tetto candido, perdendosi poi in lontananza in altre fila e fila di vette. Incrociamo una delle cordate che ci precedevano, che ha fatto retrofront.
Davanti a noi c’è di nuovo un’area, stavolta molto larga, di ghiaccio nerastro. Qui non ci sono tracce perché si tratta di ghiaccio spoglio di neve, solo segni di ramponi qua e là. E questa volta ci sono crepacci più larghi (anche se bastano passi lunghi per superarli), e formano un reticolo fitto.
Procediamo con attenzione, valutando per bene il percorso, fino alla larga crepaccia terminale che offre un passaggio sicuro su un ponte di neve assai grande e solido.
Ora saliamo lungo un pendio più leggero, innevato, dove si sprofonda talvolta in buchi nascosti dal manto.
Da qui la seconda crepaccia terminale, quella che come un immenso sorriso sghembo e rovesciato spacca in due la parete che ci attende, appare piuttosto minacciosa.
Tuttavia, vediamo un passaggio che sembra sicuro. Una delle cordate che ci precedono la sta superando parrebbe senza esitazioni.
Alla base della parete, che essendo esposta a nordovest è ancora in ombra (il che è ottima cosa), mettiamo via le bacchette e impugniamo le piccozze. Indosso i guanti. Un sorso e si riparte.
Si sale molto bene in neve ottima. La traccia non è dritta, ma serpeggia in un paio di tornanti, così l’ascensione non è faticosa su questa parete che avrà una pendenza di circa 40 gradi.
La crepaccia terminale in effetti non costituisce un ostacolo: dove passa la traccia è occlusa da enormi blocchi di ghiaccio.
La parte più difficile viene ora. Dopo alcuni minuti, sopra di me distinguo una placca di ghiaccio vivo, azzurrino e infido. La traccia dov’è? Tra l’altro qui la parete non è più quell’enorme scivolone di ghiaccio che, in caso di caduta, costringerebbe a una lunga sciata a ruzzoloni fino alla base senza troppi danni, ma è esposta sopra un’area rocciosa e crepacciata. Non sarebbe affatto divertente andare giù qui.
Decido di aggirare la placca da sotto, per poi risalire a destra e uscire in cresta.
Dopo qualche passo però la corda va in tensione, esattamente quando mi rendo conto (da qui si vede, da sotto non si vedeva) che la traccia passa sopra la placca, dove sono scavati alcuni gradini.
Mi giro a cercare Valentina e vedo che ha qualche esitazione all’inizio della zona ghiacciata. Siamo legati solo tra noi, per cui la situazione è un po’ delicata.
«Che fai? Sto sul ghiaccio vivo…» le chiedo, lei mi spiega che è un attimo in difficoltà. Non perdo tempo e interrompo la mia piccola traversata: mi rivolgo in su, impugno la piccozza alla base, pianto le punte dei ramponi, e parto su dritto sulla placca, uscendone una decina di metri più in alto e piantando per bene la piccozza così da poter assicurare Valentina, che sale sfruttando i gradini al di sopra.
Usciamo in cresta e ci godiamo lo spettacolo della vista sul versante trentino, con una congerie di grandi cime che si alternano sopra le falde e le vedrette glaciali.
Incrociamo le due cordate che ci precedevano, e ripartiamo.
Il primo tratto ci riserva un particolare crepaccio che segue la linea di cresta, qui quasi orizzontale, proprio in mezzo. Per superarlo camminiamo sopra una cornice che lo sovrasta, con molta attenzione, però ci sembra più che solida.
Poi usciamo su un ultimo pendio tondeggiante che conduce a un nuovo tratto di cresta orizzontale.
E quindi la vetta, quota 3.769, dove ancora si scorgono i resti di una baracca dei tempi della Grande Guerra.
Il luogo è in un’altra realtà. Che sta sopra. Osservo l’emozione di Valentina riflettersi con il cielo negli occhi azzurri, un cielo vicinissimo, leggero e sottile come l’aria che rende così tangibili e perfette le cime circostanti: quelle più vicine come il Gran Zebrù e dietro di lui il massiccio Ortles, le altre Tredici Cime, e là, miraggi sospesi, le divinità del gruppo del Bernina.
Per lei è la prima grande vetta. Il suo sorriso è luminoso come la neve.
Oggi ha fatto una cosa grande.
Questo è un momento che resta. Che nessuno ti può togliere. Che definisce chi sei.
Lei ancora non lo sa – non è in vetta che lo sai, è quando torni a casa. In vetta assorbi soltanto.
Io mi siedo e ascolto.
Il vento è freddo. Ci celiamo dietro una roccia che qui spunta dalla neve. Un paio di foto, un pezzo di cioccolato, stringiamo la mano ai due alpinisti tedeschi che ci seguono.
Dopo il primo tratto di cresta, reso eccitante dal forte vento che sembra volerci strappare via, ci aspetta di nuovo la discesa lungo la placchetta di ghiaccio, il passaggio che senza dubbio più ci preoccupa della discesa.
Valentina scende per prima, così posso assicurarla dall’alto.
All’inizio è incerta, alla prima svolta non capisce come muoversi sui ramponi mantenendo l’equilibrio, esita, si rannicchia e mi dice che ha una fifa blu.
Le dico di muoversi con calma e piantare i piedi con decisione. Tallone, poi le altre punte, e di stare bella dritta. Obbedisce e in pochi secondi sta già scendendo decisa.
Sul ghiaccio vivo non è banale, anche se da qui almeno scorgiamo bene i gradini e li sfruttiamo. Le dico di smetterla di pestorlare con i piedi il ghiaccio: un passo, solido, e poi un altro, e fidati dei piedi!
Lei mi insulta orribilmente ma mi dà retta, e dopo pochi passi è di nuovo su un terreno meno infido. La raggiungo e scendiamo.
La crepaccia terminale non è un problema, e siamo quasi subito (dopo avere incrociato una cordata che spero sia tornata poi indietro perché troppo stremata e insufficientemente attrezzata per affrontare la placca di ghiaccio) sul plateau bianchissimo, ora reso scintillante dal sole.
Togliamo i pile e ci rimettiamo in marcia. Sono le 10.00 circa, ottimo orario ma il sole è caldo. Preferiamo non concedergli il tempo di rendere molle il terreno.
Tuttavia, qualche cedevolezza la incontreremo: almeno tre volte la neve mi cede sotto i piedi, e un piccolo ponte di neve non mi regge, così che una gamba mi finisce penzoloni in un crepaccetto. Niente di preoccupante, anzi a dire la verità è divertente da matti.
Marciamo beati con il sole che ci segue alzandosi e carezzando la pelle sempre con più violenza.
Alle 11.00 stiamo togliendo i ramponi in prossimità del rifugio.
Dopo un breve ristoro e esserci liberati dell’attrezzatura pesante, cominciamo la discesa verso Santa Caterina.
Chiudo con una nota rivolta a tutti coloro che si avvicinano all’alpinismo e alle alte quote e puntano a un’ascensione al Cevedale come “iniziazione”.
Sicuramente resta un terreno di iniziazione ideale, a patto che nella cordata ci sia almeno un alpinista con un minimo di esperienza e capacità di valutazione su ghiaccio. Come dicevo, e come si può appunto leggere nelle più recenti relazioni, questa via normale non è più la “passeggiata” di qualche anno fa.
Occorre un certo occhio per valutare il giusto percorso nelle aree crepacciate, dove le tracce non sono visibili, per quanto non ci siano grosse rotture. E occorre una certa sicurezza sul ghiaccio vivo.